LA SCOMPARSA DI JACQUES DERRIDA
UNA GRAVISSIMA PERDITA PER LA CULTURA MONDIALE.
SIRACUSA RICORDA IL SUO CITTADINO ONORARIO.
Jacques Derrida ci ha lasciati. La sua scomparsa apre un vuoto incolmabile nella comunità filosofica mondiale. E la città di Siracusa non può che ricordarlo, ed associarsi al lutto del mondo della cultura, in virtù di quel legame ideale istituito, con il grande pensatore franco-algerino, il 18 gennaio del 2001, in occasione del conferimento della Cittadinanza onoraria. Un momento solenne, quel pomeriggio di quasi quattro anni fa, nel salone di Palazzo del Senato, alla presenza di decine e decine di giovani e studiosi provenienti da ogni parte d’Italia, ad ascoltare Jacques Derrida pronunciare, come era solito fare, un discorso, ad un tempo, commosso, di sincero riconoscimento per la città, e carico di intenso valore speculativo. Possiamo ben dirlo: con lui scompare uno dei più straordinari e originali intellettuali dei nostri tempi.
Un discorso memorabile, il suo – “La tentazione di Siracusa” – che suscitò una vasta eco (una sintesi venne pubblicata nelle pagine culturali del quotidiano “La Repubblica” e ripreso e commentato da altri quotidiani nazionali), perché ripercorreva il legame di “fraterna inimicizia” che – da Platone in poi: luogo originario e costitutivo del pensiero filosofico – si è venuto intessendo tra filosofia e politica, tra pensiero e azione, tra potere e intelligenza. In tal senso, il conferimento della cittadinanza Onoraria volle inaugurare, per Siracusa, una sorta di legame simbolico tra la città e le punte più alte della filosofia contemporanea.
Senza ombra di dubbio, Jacques Derrida può essere annoverato tra i più importanti ed autorevoli pensatori che hanno segnato profondamente la scena culturale – dalla filosofia, alla linguistica, alla psicanalisi, alla riflessione etico-politica – del Novecento.
Avendo letto in questi anni le commemorazioni, i ricordi, gli “addii”, le testimonianze che Derrida ha dedicato, con commossa e straordinaria partecipazione emotiva, a quei tanti studiosi, ed amici scomparsi, che lo hanno accompagnato lungo il suo intenso itinerario intellettuale – da Lyotard, a Lévinas, da Paul de Man a Blanchot – , riusciamo adesso ad avvertire l’estrema difficoltà di condensare in queste poche righe il “debito” profondo – personale e teorico, potremmo dire – che lega ciascuno di noi a chi, come Derrida, ha fatto del “dono del pensiero” e del “pensiero del dono” la costante, il compito di una intera vita.
Nato a El Biar, presso Algeri, nel 1930, membro di una famiglia di origine ebraica, Derrida subirà nel 1942 l’allontanamento dal Liceo di Ben Aknoum, appena dopo il primo anno scolastico – proprio in quanto ebreo – , a seguito delle leggi sul numero chiuso imposte dal regime di Pétain. Ed egli stesso non mancherà di ricordare in qualche suo scritto questa sua condizione di estraneità comunitaria e linguistica, vissuta nella fase della prima formazione adolescenziale.
Verso la fine degli anni ’40, i suoi primi interessi letterari e filosofici e le sue prime letture lo porteranno a accostarsi a Rousseau, Nietzsche, Gide, Camus: successivamente a Bergson, Sartre, Kierkegard, ed infine ad Heidegger, autore, quest’ultimo, che ha rappresentato il suo riferimento costante e più intenso, pur in un atteggiamento di prossimità e distanza, di profonda compenetrazione e sguardo critico, sino alla sua stagione matura.
All’Università si accosterà prima all’esistenzialismo sartriano, poi alla fenomenologia di Husserl, frequentando le figure più prestigiose della filosofia francese: da Louis Althusser, a Foucault, da Merleau-Ponty a Hyppolite, da Bachelard, a Paul Ricoeur. Dopo la sua tesi di laurea sulla filosofia di Husserl, i suoi interessi e i suoi studi verteranno sullo strutturalismo di Lévi-Strauss e Jacques Lacan. Sono gli anni in cui Derrida svilupperà le sue ricerche sulla scrittura e sulla “grammatologia”, enunciando quel concetto di “différance” – neologismo intraducibile: “differanza”, proprio così, con la “a”, o dif-ferenza – , in cui il tema della spaziatura, della distanza, dell’alterità apre a quella disseminazione costitutiva del “senso”, che in tal modo, così come non è “dialetticamente” ricomponibile, non è affatto rintracciabile né in una “origine” più profonda, né in una “verità” presupposta, ma rimanda sempre ad un “evento”, ad un a-venire, la cui configurazione, non solo non è riducibile o riconducibile a “linguaggio”, ma ci espone incessantemente – proprio per la paradossale, possibile “im-possibilità” di questo ad-venire – al carattere aporetico del nostro stare nel mondo.
Sono gli anni in cui, con un linguaggio ed una modalità di scrittura che segnano una vera e propria “svolta” nella riflessione filosofica contemporanea, si viene delineando, sia in Europa che negli Stati Uniti, quel lungo periodo di estrema curiosità e di grande interesse verso il suo pensiero filosofico, che non ha più smesso di suscitare attesa, confronto, convegni, scuole, studi: facendo così di Derrida il filosofo “europeo” più affermato oltre Oceano, protagonista di memorabili confronti con i pensatori più autorevoli del secondo Novecento: da Foucault a Gadamer, da Habermas a Richard Rorty, da Lévinas a Ricoeur.
Il suo pensiero – le sue idee, il suo stile, la sua scrittura – ha rappresentato una vera e propria “rottura epistemologica” nel panorama intellettuale del secondo Novecento: un punto ineliminabile di riferimento, di confronto, spesso anche di polemica, alimentando così, accanto ad adesioni entusiastiche, incomprensioni o reazioni preconcette: dalla lunga diatriba con John R. Searle, negli anni ’70, sino alla affermazione di una “scuola decostruzionista”, intitolata – ben al di là delle stesse intenzioni di Derrida – a quella “pratica” di critica filosofica della “decostruzione”, che rimane la testimonianza, l’eredità, il lascito, la “traccia” più forte e al tempo stesso meno concettualizzabile del pensiero teorico di Derrida.
Non solo un pensatore originalissimo, ma anche uno straordinario testimone e protagonista diretto delle istanze di rinnovamento etico-politico della società mondiale. Nel 1981 – anni di pieno oscurantismo autoritario del regime cecoslovacco – invitato a Praga dal gruppo di contestazione al regime, “Charta 77”, per tenere un seminario clandestino, viene arrestato dalla polizia, che aveva finto di trovare della droga nella sua valigia al momento dell’imbarco in aeroporto. Una ondata di protesta degli intellettuali di tutto il mondo e il diretto intervento di Mitterand obbligherà, nel giro di pochi giorni, il Governo cecoslovacco a liberare il filosofo francese. Questo episodio non farà che accrescere la sua notorietà pubblica.
Ed alla sua sterminata, inesauribile produzione intellettuale – migliaia e migliaia di pagine su temi di filosofia, di linguistica, di psicanalisi, sul rapporto tra diritto e giustizia, sulla religione e la fede, su singoli autori classici o suoi contemporanei, su aspetti di carattere etico-politico o esistenziale (il dono, l’amicizia, l’ospitalità, il perdono, il segreto, la morte, ecc.) – ha fatto sempre da contraltare il suo impegno etico-politico: a fianco di Nelson Mandela e Desmond Tutu contro l’apartheid e la riconciliazione; insieme a Shimon Peres in Israele e a Ramallah per il processo di pace con i palestinesi.
In questi ultimi anni – forse, potremmo dire in coincidenza la fase della sua incipiente malattia – il suo ultimo impegno si era ancora di più incentrato su aspetti di carattere etico-politico. D’altra parte, sia per i tragici eventi dell’11 settembre del 2001, che per l’effetto dei processi di mondializzazione/globalizzazione, la nostra epoca sta vedendo radicalizzarsi le domande del nostro presente e del nostro incerto e inquieto “domani”. E certamente, dopo “Stati canaglia” (un bellissimo saggio, molto critico verso la cultura dell’attuale Presidenza Bush), e “Filosofia del terrore” (un confronto/dialogo con Habermas, curato da Giovanna Borradori, in cui Derrida svolge un lucido esercizio della ragione e un appassionato appello alla giustizia), vorremmo qui suggerire a quanti vorranno accostarsi al pensiero di Derrida di leggere quella sorta di “testamento culturale” – “Quale domani ?” (Bollati, 2004) – in cui Jacques Derrida, incalzato dalle domande puntuali della sua amica di sempre, la psicanalista Elisabeth Roudinesco, ci offre una straordinaria ed intensa conversazione su temi diversi e di grande attualità – dalla crisi/trasfornazione della famiglia, al tema della libertà; dall’impegno contro la pena di morte al rischio dell’antisemitismo; dalle politiche della differenza al rapporto uomo/animale.
Un lascito importante e fondamentale, in cui Derrida conferma la potenza eversiva del suo pensiero.
Roberto Fai
12 Ottobre 2004
SIRACUSA RICORDA IL SUO CITTADINO ONORARIO.
Jacques Derrida ci ha lasciati. La sua scomparsa apre un vuoto incolmabile nella comunità filosofica mondiale. E la città di Siracusa non può che ricordarlo, ed associarsi al lutto del mondo della cultura, in virtù di quel legame ideale istituito, con il grande pensatore franco-algerino, il 18 gennaio del 2001, in occasione del conferimento della Cittadinanza onoraria. Un momento solenne, quel pomeriggio di quasi quattro anni fa, nel salone di Palazzo del Senato, alla presenza di decine e decine di giovani e studiosi provenienti da ogni parte d’Italia, ad ascoltare Jacques Derrida pronunciare, come era solito fare, un discorso, ad un tempo, commosso, di sincero riconoscimento per la città, e carico di intenso valore speculativo. Possiamo ben dirlo: con lui scompare uno dei più straordinari e originali intellettuali dei nostri tempi.
Un discorso memorabile, il suo – “La tentazione di Siracusa” – che suscitò una vasta eco (una sintesi venne pubblicata nelle pagine culturali del quotidiano “La Repubblica” e ripreso e commentato da altri quotidiani nazionali), perché ripercorreva il legame di “fraterna inimicizia” che – da Platone in poi: luogo originario e costitutivo del pensiero filosofico – si è venuto intessendo tra filosofia e politica, tra pensiero e azione, tra potere e intelligenza. In tal senso, il conferimento della cittadinanza Onoraria volle inaugurare, per Siracusa, una sorta di legame simbolico tra la città e le punte più alte della filosofia contemporanea.
Senza ombra di dubbio, Jacques Derrida può essere annoverato tra i più importanti ed autorevoli pensatori che hanno segnato profondamente la scena culturale – dalla filosofia, alla linguistica, alla psicanalisi, alla riflessione etico-politica – del Novecento.
Avendo letto in questi anni le commemorazioni, i ricordi, gli “addii”, le testimonianze che Derrida ha dedicato, con commossa e straordinaria partecipazione emotiva, a quei tanti studiosi, ed amici scomparsi, che lo hanno accompagnato lungo il suo intenso itinerario intellettuale – da Lyotard, a Lévinas, da Paul de Man a Blanchot – , riusciamo adesso ad avvertire l’estrema difficoltà di condensare in queste poche righe il “debito” profondo – personale e teorico, potremmo dire – che lega ciascuno di noi a chi, come Derrida, ha fatto del “dono del pensiero” e del “pensiero del dono” la costante, il compito di una intera vita.
Nato a El Biar, presso Algeri, nel 1930, membro di una famiglia di origine ebraica, Derrida subirà nel 1942 l’allontanamento dal Liceo di Ben Aknoum, appena dopo il primo anno scolastico – proprio in quanto ebreo – , a seguito delle leggi sul numero chiuso imposte dal regime di Pétain. Ed egli stesso non mancherà di ricordare in qualche suo scritto questa sua condizione di estraneità comunitaria e linguistica, vissuta nella fase della prima formazione adolescenziale.
Verso la fine degli anni ’40, i suoi primi interessi letterari e filosofici e le sue prime letture lo porteranno a accostarsi a Rousseau, Nietzsche, Gide, Camus: successivamente a Bergson, Sartre, Kierkegard, ed infine ad Heidegger, autore, quest’ultimo, che ha rappresentato il suo riferimento costante e più intenso, pur in un atteggiamento di prossimità e distanza, di profonda compenetrazione e sguardo critico, sino alla sua stagione matura.
All’Università si accosterà prima all’esistenzialismo sartriano, poi alla fenomenologia di Husserl, frequentando le figure più prestigiose della filosofia francese: da Louis Althusser, a Foucault, da Merleau-Ponty a Hyppolite, da Bachelard, a Paul Ricoeur. Dopo la sua tesi di laurea sulla filosofia di Husserl, i suoi interessi e i suoi studi verteranno sullo strutturalismo di Lévi-Strauss e Jacques Lacan. Sono gli anni in cui Derrida svilupperà le sue ricerche sulla scrittura e sulla “grammatologia”, enunciando quel concetto di “différance” – neologismo intraducibile: “differanza”, proprio così, con la “a”, o dif-ferenza – , in cui il tema della spaziatura, della distanza, dell’alterità apre a quella disseminazione costitutiva del “senso”, che in tal modo, così come non è “dialetticamente” ricomponibile, non è affatto rintracciabile né in una “origine” più profonda, né in una “verità” presupposta, ma rimanda sempre ad un “evento”, ad un a-venire, la cui configurazione, non solo non è riducibile o riconducibile a “linguaggio”, ma ci espone incessantemente – proprio per la paradossale, possibile “im-possibilità” di questo ad-venire – al carattere aporetico del nostro stare nel mondo.
Sono gli anni in cui, con un linguaggio ed una modalità di scrittura che segnano una vera e propria “svolta” nella riflessione filosofica contemporanea, si viene delineando, sia in Europa che negli Stati Uniti, quel lungo periodo di estrema curiosità e di grande interesse verso il suo pensiero filosofico, che non ha più smesso di suscitare attesa, confronto, convegni, scuole, studi: facendo così di Derrida il filosofo “europeo” più affermato oltre Oceano, protagonista di memorabili confronti con i pensatori più autorevoli del secondo Novecento: da Foucault a Gadamer, da Habermas a Richard Rorty, da Lévinas a Ricoeur.
Il suo pensiero – le sue idee, il suo stile, la sua scrittura – ha rappresentato una vera e propria “rottura epistemologica” nel panorama intellettuale del secondo Novecento: un punto ineliminabile di riferimento, di confronto, spesso anche di polemica, alimentando così, accanto ad adesioni entusiastiche, incomprensioni o reazioni preconcette: dalla lunga diatriba con John R. Searle, negli anni ’70, sino alla affermazione di una “scuola decostruzionista”, intitolata – ben al di là delle stesse intenzioni di Derrida – a quella “pratica” di critica filosofica della “decostruzione”, che rimane la testimonianza, l’eredità, il lascito, la “traccia” più forte e al tempo stesso meno concettualizzabile del pensiero teorico di Derrida.
Non solo un pensatore originalissimo, ma anche uno straordinario testimone e protagonista diretto delle istanze di rinnovamento etico-politico della società mondiale. Nel 1981 – anni di pieno oscurantismo autoritario del regime cecoslovacco – invitato a Praga dal gruppo di contestazione al regime, “Charta 77”, per tenere un seminario clandestino, viene arrestato dalla polizia, che aveva finto di trovare della droga nella sua valigia al momento dell’imbarco in aeroporto. Una ondata di protesta degli intellettuali di tutto il mondo e il diretto intervento di Mitterand obbligherà, nel giro di pochi giorni, il Governo cecoslovacco a liberare il filosofo francese. Questo episodio non farà che accrescere la sua notorietà pubblica.
Ed alla sua sterminata, inesauribile produzione intellettuale – migliaia e migliaia di pagine su temi di filosofia, di linguistica, di psicanalisi, sul rapporto tra diritto e giustizia, sulla religione e la fede, su singoli autori classici o suoi contemporanei, su aspetti di carattere etico-politico o esistenziale (il dono, l’amicizia, l’ospitalità, il perdono, il segreto, la morte, ecc.) – ha fatto sempre da contraltare il suo impegno etico-politico: a fianco di Nelson Mandela e Desmond Tutu contro l’apartheid e la riconciliazione; insieme a Shimon Peres in Israele e a Ramallah per il processo di pace con i palestinesi.
In questi ultimi anni – forse, potremmo dire in coincidenza la fase della sua incipiente malattia – il suo ultimo impegno si era ancora di più incentrato su aspetti di carattere etico-politico. D’altra parte, sia per i tragici eventi dell’11 settembre del 2001, che per l’effetto dei processi di mondializzazione/globalizzazione, la nostra epoca sta vedendo radicalizzarsi le domande del nostro presente e del nostro incerto e inquieto “domani”. E certamente, dopo “Stati canaglia” (un bellissimo saggio, molto critico verso la cultura dell’attuale Presidenza Bush), e “Filosofia del terrore” (un confronto/dialogo con Habermas, curato da Giovanna Borradori, in cui Derrida svolge un lucido esercizio della ragione e un appassionato appello alla giustizia), vorremmo qui suggerire a quanti vorranno accostarsi al pensiero di Derrida di leggere quella sorta di “testamento culturale” – “Quale domani ?” (Bollati, 2004) – in cui Jacques Derrida, incalzato dalle domande puntuali della sua amica di sempre, la psicanalista Elisabeth Roudinesco, ci offre una straordinaria ed intensa conversazione su temi diversi e di grande attualità – dalla crisi/trasfornazione della famiglia, al tema della libertà; dall’impegno contro la pena di morte al rischio dell’antisemitismo; dalle politiche della differenza al rapporto uomo/animale.
Un lascito importante e fondamentale, in cui Derrida conferma la potenza eversiva del suo pensiero.
Roberto Fai
12 Ottobre 2004